Danze e canti di domeniche deserte
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Ogni miniera ha una sua arena, e
ogni tribù di negri ingaggiati dalla miniera ha la sua squadra di danzatori e
musicanti – Si conciano con infantile vanità, maschere di gesso e di minio,
code di stracci, di piume, di carta, e danno spettacolo – E' un ritmo chiuso,
ferocemente in crescendo; la terra è calpestata con odio – Ma i negri si
esibiscono poi anche su di un palcoscenico spoglio: sfilano solisti, terzetti,
quartetti – Concorrono alle “finalissime” per la formazione di compagnie di
dilettanti – Con un piccolo flauto di latta un ragazzetto ha ottenuto un
trionfo
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(Dal nostro inviato speciale)
Johannesburg,
febbraio.
La
città artificiosa, esplosa in pochi anni dall'oro e sull'oro, alla domenica è
inerte, svuotata. Si concede come una attonita tregua; e negli alberghi, data
la stagione estiva, si può persino essere ammessi al lunch senza cravatta. Ciò
non è poco, per il formalismo un po' provinciale che domina questi ambienti,
sempre impensieriti di non mostrarsi abbastanza «europei». La domenica è il
giorno di un assoluto, puritano riposo; ed è quindi il solo nel quale i negri
che vogliano esplorare la città passano, dal primo mattino al tramonto,
percorrerne le strade. E' però un piacere che non molti si concedono. Già la
marcia di avvicinamento dalle loro locations, una marcia che alcuni compiono
disdegnando, l'autobus, esige, fra l'andata e il ritorno, una ventina di
miglia. Vi si aggiungano le altre, per le strade del centro; non è certo una
tentazione che, dopo una o due esperienze, si faccia irresistibile. Eppure, a
coppie, o a gruppetti, o anche a ciondoloni solitari, di negri ce ne sono
sempre, sono quasi i soli che si incontrino. Vanno, di crocicchio in
crocicchio, per lo più silenziosi, lo sguardo spento, lontano. Trascinano le
loro scarpe gialle slabbrate, sotto calzoni vedi o cilestrini, magliotti rosei,
giacchettone a scacchi; e le donne trascinano ventri obesi, spalle che si
gonfiano alla nuca gonfia, più rassegnate che fiere dei loro cappellini che
sembrano ceste, un altro peso ancora da portare, sia pure in onore della
domenica.
Parecchi
si avvicinano per la prima volta a quelle alte torri dei bianchi, a quei marmi,
a quei bronzi, a quelle insegne. Sostano a decifrare vetrine e vetrine,
scrutano oggetti su oggetti dei quali non comprendono l'uso, ma a lungo ne
seguono, con lo sguardo, le forme levigate, i colori. In queste poche ore, che
di settimana in settimana cadono su gli asfalti come rintocchi nel vuoto,
l'ampio palcoscenico della ricchezza e degli affari ospita soltanto le comparse
dei paria, i soli che qui ricordino il continente nero; e le comparse vanno, di
praticabile in praticabile, di fondale in fondale, forse con il solo stupore di
non essere a ogni istante cacciate da un invisibile direttore di scena.
* *
Nelle
miniere, invece, le ore della domenica non solo sono quelle dell'unica giornata
da poter trascorrere all'aria e al sole, lontano da pozzi, cunicoli, gallerie:
ma è anche la mattinata delle danze di tribù, sono le ore dell'unico sfogo,
della esibizione che si sfrena, della vanità, degli applausi. E codeste
esibizioni, codesti sfoghi, sono incoraggiati e coltivati, possono costituire
una piccola ma non inutile valvola. Ogni miniera ha infatti una sua arena di
danze, che di solito addossa le sue gradinate a un pendio, o addirittura le
interra; e allora, dal verde dei prati, affiora soltanto l'anello della tettoia
di stuoie, che protegge dal sole gli spalti. Sono i negri stessi a costruirsi
questi recinti ad alte gradinate, e ciascuno invariabilmente ricorda una
piccola plaza per corride.
Non
esistono biglietti d'ingresso, la domenica puritana permette soltanto
disinteressati svaghi, non spettacoli, non prestazioni. I posti per i bianchi
accolgono esclusivamente degli invitati: quelli per i negri sono dei primi
occupanti. L'unico provento ammesso è quello, durante gli intervalli, di bibite
non alcoliche; e quel provento va a favore di benefiche istituzioni. C'è
un'atmosfera un po' ipocrita da vecchiotta festa campestre, un po' da
serraglio, molto da circo equestre. Ogni tribù, fra gli ingaggiati della
miniera, ha la sua squadra di danzatori e musicanti scelti dopo eliminatorie
implacabili. Ognuno dei prescelti molto tiene a codesto onore, e deve
continuamente difenderlo da concorrenti insidiosi. Perché quell'onore gli
concede, per pochi minuti alla settimana, il privilegio di sentirsi quasi
libero, e quasi protagonista. Libero di sfrenarsi in tutte le frenesie delle
danze del suo villaggio, in un breve ritorno alle origini; e protagonista come
su di un palcoscenico, accolto da applausi che lo incitano, lo eccitano, lo
trasfigurano.
La
quasi infantile vanità dei negri è infinita; e, per meglio servirla, si
conciano con quanto ritengono più prelibato. Maschere, anche soltanto di gesso,
di nero fumo e di minio; penne di gallina e mannelli di scopa; collane di
vetrini, di ghiaia; code importanti, di stracci, di piume, di carta; grossi
sonagli ai polsi, alla cintola, alle caviglie; bastoni che vorrebbero essere
lance, scampoli di cuoio o di cartone che vorrebbero essere scudi, alte corna
biforcute, issate sul capo come trofei; e, fra tutto ciò, la magliettina
stinta, o i calzoncini a sbrendoli, o un colletto sul collo nudo. Uno si era
appeso, ad armacollo, una bottiglietta vuota, se ne pavoneggiava come di un
prezioso ornamento; e un altro brandiva un bastoncino lungo due palmi, una
povera bacchettuccia appena scortecciata, come se fosse uno scettro.
Tribù
dei Bechuana, dei Pondo, dei Tonga, dei Nyambaan, dei Mzingili, degli Xosa.
Ognuna fa il suo «numero», sette o nove minuti aizzati da pifferi e tamburi, o
dalle rozze assicelle di grossi silofoni, mentre ritornelli lamentosi si levano
sincopati e monotoni fino a lacerarsi afoni per poi subito riprendere più
angosciosi e più cupi, rotti soltanto da altri stacchi e da altri strappi di un
rauco, minaccioso dolore. Ma la più vera minaccia che poi si sfoga, e sembra
così appagarsi, è in un ritmo chiuso, ferocemente in crescendo, del quale
l'arena letteralmente rimbomba. Sono danze intessute di percosse; e le percosse
sono tutte per la terra, che si direbbe atrocemente nemica. E' calpestata con
odio, con furore, come da una sola implacabile belva a trenta, a quaranta
zampe: e ogni zampata approfondisce la molteplice orma, e a quel battito cupo,
sempre più serrato, ossessivo, l'arena ne ha un tremito, su di una lontana eco
di tam-tam nella foresta.
* *
Tutt'altra
atmosfera al Bantu men's Social Centre dove, nel tardo mattino, si avranno le
«finalissime». E' un circolo di negri, soprattutto consiste in una sala nuda e
in uno spoglio palcoscenico. Vi si esibiscono quanti credono di saper cantare,
o suonare, o danzare; e possono esibirsi soltanto dopo meticolosi esami; anche
questo Centre è sotto la sorveglianza del ministero per gli «Affari indigeni».
Gli europeans vi sono di rado ammessi, oggi è una di quelle pochissime
giornate. Perché si devono definire le ultime scritture per una compagnia di
dilettanti negri che se ne andrà in una sua tournée. Ciascuno di codesti
«numeri» sarebbe certo un richiamo per un nostro spettacolo di riviste, non vi
traspare nulla d'improvvisato o di dilettantesco, il microfono non è mai un
despota estraneo, ma un complice o un amico. Sfilano solisti, terzetti,
quartetti; e, dopo i loro canti o le loro danze, la nota più commovente è data
dai loro abiti. Anche con quelli, hanno cercato di apparire un «numero». Quando
l'hanno potuto, se li sono scelti eguali, ma con giudizio, un grigiolino
smorto, o un verduccio stinto, da potersi poi tranquillamente adoperare tutti i
giorni. Altri, dovendo rinunciare alla spesa folle di un abito, hanno ripiegato
sui magliotti, o almeno sulle cravatte. Tre di quattro ballerini hanno abiti
eguali, di un marroncino slavato, con cravatte verdi; il quarto non ce l'ha
fatta, ha una giacca sfondata a piselloni, su due brache che sembrano stese ad
asciugare; ma ha anche lui una fiammante cravatta verde; e se del suo abito è
un po' vergognoso, se ne riscatta prodigandosi come un dannato, dei quattro è
certo il più bravo.
Un
vero e proprio trionfo è per un ragazzetto di dodici anni. E' lui che si è
inventato il suo «numero», e si è scovato i compagni, e li ha istruiti. Sono
cinque ragazzotti, armato ciascuno di un piccolo flauto di latta; e fra quei
cinque il direttore-protagonista è come il cucciolo della brigata. Si avanza
alla ribalta, punta in alto il suo zufolo, ne cava una cascatella di note
acutissime, ancora le supera, si aggrappa all'ultima, e allora il coro
interviene, serrato, indiavolato, e sempre a rimorchio del minuscolo solista,
che tutto vede e tutto sente, e tutti incita a mimare con lui, sempre suonando,
una grottesca passeggiata per la strada di un quartiere negro. Ha trovato anche
il titolo, per il suo numero, «Il fischio da un penny».
-
Che sarà, di questo ragazzino? Diventerà qualcuno, o la sua vita sarà quella di
tutti? - così chiede, un po' untuoso, un po' patetico, il presentatore bianco,
a un pubblico che si è stancato di applaudire. (Potrebbe certo, diventare
qualcuno; basterebbe permetterglielo).
* *
Un'altra
domenica è trascorsa, stanno per cominciare altri sei giorni di duro lavoro; e
in quei sei giorni ancora si accresceranno i mine-dumps, gli immensi depositi
di rifiuti che le miniere incessantemente hanno accumulato da cinquanta, da
sessanta, da ottant'anni. Sono enormi cumuli di materiale aurifero ormai
depauperato, una polvere fatta sterile dalle reazioni chimiche, e che non può servire
assolutamente a nulla. Sono vere e proprie colline, alte anche più di cento
metri, lunghe talvolta più di mezzo chilometro, larghe altrettanto; e non vi
può crescere uno stelo. Calve, massicce, maculate di fulvo o di giallastro,
tagliano a decine l'orizzonte, si accampano sull'altopiano come isole o
promontori, le più lontane s confondono con le nubi, forse in nessun luogo
l'uomo ha così violentemente mutato tutto un paesaggio; e questo lo è stato di
giorno in giorno, di ora in ora, con una tenace fatica di formiche, sempre le
miniere espettorano i loro rifiuti, e piccole ferrovie nere s'inerpicano sui
fianchi di codeste colline artificiali, a versarvi un altro strato, e un altro
strato ancora, mentre bruchi stecchiti di tubazioni adducono sullo strato più
recente acqua e acqua, a impastarlo se non a cementarlo, perché altrimenti, a
un qualsiasi soffiare di vento, si scatenerebbe sulla città come un ghibli,
voluto dall'oro, e dai suoi rifiuti.
Mario Gromo